Il mio amico Biagio Marinò mi disse – e dicendolo si commuoveva – che aveva sognato Torino Fiat da bambino. A quindici anni riuscì ad andarci con l’aiuto di amici di famiglia e si fece accompagnare dalla quinta elementare e dalla passione i motori. Di notte faceva il guardiano di un garage e di giorno studiava. Poi lo raggiunsero la madre, la sorella e anche il padre. Ritornò al sud da ingegnere con il volto torinese dell’Italgas, montò la rete di metano, risentì l’odore del mercato dell’infanzia senza nostalgia, passò per Roma, fece una breve deviazione a Venezia e alla fine tornò a Torino.
La mia Torino cominciò con la Juventus, quando non c’era neppure la televisione e io sapevo della sua esistenza per sentito dire. Il nome mi piaceva, mi faceva sentire più grande, come se avessi imparato il latino, cominciato a studiare proprio in quei giorni. Della città della Mole antonelliana e della Fiat, mi intrigava il Po, il più grande fiume d’Italia. Abituato ai fiumiciattoli del mio paese in cui prendevo gamberetti e piccoli cavedani, cullai il grande salto di andare a pescare in quell’enormità immaginata di acqua, ma rimasi a quello che era scritto sul libro di geografia. Poi ci fu la storia, il neoguelfo Carlo Alberto di cui mi intrigava lo Statuto, l’Unità d’Italia, Cavour, Giolitti, la televisione e l’ombra dei Savoia e degli Agnelli.
A Torino sono stato la prima volta da adulto per partecipare ad un incontro all’università. Poi le visite diventarono più frequenti e riuscii perfino ad andare a vedere una partita della Juventus, ma questo avvenne quando ero padre e fu per portare mio figlio a vedere i suoi giocatori beniamini.
Infine, è arrivato il presente, quello che sbuca dietro l’angolo di un giorno qualsiasi dell’anno, senza annunciarsi perché è fatto di sé, di preziosa presenza, il modo necessario alle storie umane del quotidiano piene di volti, di sorrisi, di domande e di emozioni che non hanno parole, sono scriminature di capelli, orecchie a sventola e nasi aquilini, occhi azzurri, gesti, toni di voce, gentilezza, il saluto completo con i baci sulle guance, ponti costruiti lì per lì con un accenno, una stretta di mano, sono una cravatta, la camicia, l’abito del giorno di festa, la parola che cerca l’eco. Ed è tutto quello che dopo puoi veramente portare via, rincantucciato forse nel fegato o, probabilmente, nell’interstizio di qualche esile nervatura che conduce l’immagine al cervello, distribuito per tutto il corpo con il sangue, passato per i polmoni con un respiro profondo, o forse anche adagiato temporaneamente nello stomaco dove dialoga con un buon bicchiere di vino, una pietanza gradevole. E tutto mentre racconti di te in un momento speciale perché tu sei li proprio per quello, per dire. E il racconto si srotola, parola dopo parola e ti piace risentirne l’eco nelle parole di Fabrizio, il padrone di casa, che ritorna nel racconto mentre mette in fila le cose e le colloca in un’esistenza che interloquisce. Con il pomodoro della tua storia e qualche divagazione scandita dall’ode di Neruda, giri per i tavoli e le sedie, occhi attenti, ti muovi tra il tintinnare dei bicchieri e ti sembra addirittura di sentirti nella sua luce di “astro della terra”. Una sera a Torino, nel presente, con l’amico che ti accoglie e dice di te agli altri, sorrisi in cui ti specchi in cui ti guardi rasserenato e vedi una tua esistenza appena messa in vita. Il Rotary, che ti riporta alla base Marambio, nell’Antardite lontana dove il sublime Dante volle collocare il paradiso terrestre.
Poi riordini tutto, i tavoli che riempiono la sala, quelle persone che sono entrate nella tua vita, l’abbraccio accogliente di Fabrizio, le parole dette e le collochi in buon ordine nella tua preziosa valigia del cuore che così può continuare a battere.
Torino, una sera del presente, insieme con gli amici del Rotary Club Torino 1958.
Franco Avicolli
Venezia, 12 marzo 2024