Pier Francesco Quaglieni, docente e saggista di storia contemporanea, ha tracciato, di Adriano Olivetti, un ritratto non agiografico, ma tale da illustrare con rigore storico la sua complessa personalità e le sue multiformi espressioni operative.
Riportiamo alcuni passi del suo intervento.
Olivetti mori ad appena 58 anni: una vita bruciata con febbrile intensità, malgrado le amarezze e i disinganni che dovette subire dopo tante speranze andate deluse.
Succeduto al padre Camillo, fondatore della Società “Olivetti”, alla guida dell’azienda, egli si rivelò un imprenditore d’avanguardia nel campo della razionalizzazione produttiva, adottando i nuovi sistemi appresi durante il suo soggiorno negli Usa che seppe però interpretare alla luce di un autentico umanesimo del lavoro.
Olivetti capi, fin dall’inizio, che esiste uno stretto rapporto tra fabbrica e territorio. Nel suo libro fondamentale L’ordine politico delle Comunità, pubblicato nel 46, l’autore osservava: «La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato di una determinata zona ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale priva di elementi di solidarietà». Ivrea e il Canavese divennero il “laboratorio olivettiano” ed ancora oggi in molti centri canavesani è rimasta l’impronta civile lasciata da Adriano e dai suoi collaboratori, malgrado le devastazioni successive.
Giovanissimo, senti un’avversione quasi epidermica nei confronti del fascismo. Se pensiamo alle denunce di Carlo Rosselli contro la «borghesia cieca e retriva» che aveva figliato le squadre d’azione di Mussolini, abbiamo chiara l’idea democratica, non priva di venature socialiste, di Adriano che, non a caso, nel 1926 partecipò con Parri e Pertini alla spericolata impresa, voluta da Rosselli, che mise in salvo il vecchio Filippo Turati, facendolo espatriare clandestinamente in Francia.
Quando Benedetto Croce lo conobbe a Pollone, osservò: «È uno dei più ingenui progettisti di grandi riforme sociali da mettere in atto con mezzi semplicissimi. Non credo che tra gli illuministi settecenteschi fosse un tipo pari. E dire che è un industriale e conduce bene la sua azienda molto rinomata».
Durante il periodo della dittatura, Adriano Olivetti mantenne la sua ostilità al regime, distinguendosi come un grande imprenditore, anche se fu costretto a prendere la tessera fascista.
Fondatore del Movimento di “Comunità”, Olivetti profuse le sue migliori energie e la sua ricchezza personale per diffondere idee che apparvero a molti come quelle di un mecenate sognatore.
Di fronte alla crisi dei partiti e alla scarsissima partecipazione dei cittadini alla vita politica si può forse invece sostenere che le sconfitte di allora furono dovute al fatto che Adriano ebbe la capacità di anticipare il futuro.
I temi delle autonomie locali e di una democrazia reale, non inquinata dalla partitocrazia, si trovano delineati in modo netto e puntuale nei suoi libri e nei suoi discorsi.
Un altro dei tratti caratteristici dell’uomo (forse solo paragonabile a Filippo Burzio) fu la sua straordinaria capacità di coniugare insieme cultura tecnico-scientifica e vasti interessi umanistici.
In Adriano c’era persino uno spirito profondamente religioso che emerge in alcune sue pagine che meriterebbero un attento studio.
Come industriale rivelò capacità eccezionali. Non solo perché Olivetti pagava alti salari ed offriva ai suoi dipendenti servizi sociali avanzatissimi, ma anche perché seppe scegliersi i collaboratori giusti, preoccupandosi, oltre che della produzione, del design, della pubblicità e delle vendite: dal 1946 al 1958 le sue fabbriche in Italia aumentarono la produzione globale di 13 volte.
Sono dati su cui riflettere e che ci portano a pensare a lui come ad un grande imprenditore di livello europeo e mondiale.
Fu un uomo dotato di uno stile e di una raffinatezza umana ed intellettuale davvero eccezionali. Forse, anche per questo, egli è così poco ricordato in una società profondamente involgarita ed anche nella sua stessa città di Ivrea, che appare totalmente morta, rispetto agli anni in cui la fabbrica olivettiana l’aveva resa una piccola e moderna “Atene d’Italia”.
Il mondo politico in particolare, confrontandosi con Olivetti, avrebbe molto da perdere. La sua lungimiranza ma anche la sua concretezza lo resero un “animale politico” di una specie ormai estinta.
Ma se andassimo a rileggere le sue opere, ci accorgeremmo che tra le tante “utopie” generose del dopo Liberazione – pensiamo a Capitini – la sua fu contemporaneamente la più vicina e la più lontana a quella di Tommaso Moro: come fu detto, egli fu un utopista positivo, non un astratto e velleitario “ingegnere” di impossibili felicità.
Grande è stata l’empatia tra il relatore e gli ascoltatori e – al solito – vivaci i loro interventi.